Stanze all'aria

lunedì 16 marzo 2015

Saludos y Besos.....5 anni dopo

annalisa6604

"...saludos y besos..."

proprio come scriveva in un post del 2011 Roby, con questa affettuosa e ironica frase con cui spesso terminavi i commenti ai nostri post, voglio anch'io ricordarti, Primo Casalini. 

Sono passati ormai 5 anni e forse altrettanti dal mio ultimo post su Stanze all'aria, ma qui spesso ritorno a rileggere i post tuoi o di altri blogghisti, i tuoi commenti colmi di acute osservazioni, di eleganti e colte puntualizzazioni o di affettuose critiche costruttive, che appunto concludevi spesso con "questo amichevole sigillo finale"!   
E forse sono proprio queste tre parole che mancano a me e a tutti coloro che, insieme a te, condividevamo questo blog......e che ci mancano ormai dal 16 marzo 2010. 

Il nostro fu un incontro "cavallo/tanguero" perché incominciò con una collaborazione per la rubrica, che allora tenevo sul Cavallo nel Cinema, per la quale mi inviavi bellissime immagini di cavalli e "cavallerizze", forse "rubate" dall'altro tuo blog Abbracci e pop corn, e poi proseguì soprattutto per la tua curiosità legata al tango e alla mia passione che cercavo di trasmettere.....non sempre con grande successo. 
Qui vorrei riportare proprio un tuo commento a un mio post tanguero "Osvaldo Zotto....e il suo tango in rete", dopo una serata di tango trascorsa insieme, a cui avrebbe dovuto seguire un tuo post.......purtroppo non ne hai avuto il tempo!!!!



Solimano ha detto...


Annalisa, fra qualche giorno racconterò in un post la bella serata di martedì scorso, che ho trascorso con te e Vittorio (e tante altre persone) a Le Banque, un american bar (se ho capito bene) vicinissimo al Cordusio. Si potrebbe chiamarlo il covo di chi ama il Tango nel modo in cui lo ami tu, un covo vasto e molto frequentato. 
Non lo farò subito perché preferisco pensarci con attenzione prima di scriverne e... perché è bene che non inflazioniamo Stanze all'aria.
Sto rileggendo il tuo "Dialogo sul tango", e mi accorgo che avevo capito poco, pochissimo, di quello che dicevi non con parole oscure, ma chiare. Una cosa è leggere, ben altra cosa è vedere, cercando di mantenersi, nello stesso tempo, coinvolti e disattaccati. E' sempre così: abbiamo sentito dire qualcosa, presumiamo di aver capito tutto.
Per mia esperienza, succede anche con lo yoga, col tai chi, col disegnare con la parte destra del cervello, con il trance nell'ascolto della musica, persino con la meditazione sul respiro. Tutte attività (arti, in un certo senso) che ho sperimentato e che si basano sul coinvolgimento del corpo.
"Siamo un corpo animato", dice Umberto Galimberti. Per me, ha ragione, ma solo chi esperisce se ne rende conto.
Una personalizzazione riguardo te: si capisce che certi fondamentali, certi modi, li hai imparati da piccola: non c'è sforzo, ma naturalezza.

grazie Annalisa e saludos
Solimano
P.S. In un altro commento dirò quello che penso e che ho provato in tutte quelle esperienze sull'importanza del Maestro, di un maestro vero.

15 gennaio 2010 00:49
 

Saludos y besos, mitico Solimano


Un ricordo degli amici qui



domenica 15 aprile 2012

Cartoline dal Titanic

Roby


Verba volant, scripta manent. O ancora, carta canta. E se si vuol esser sicuri di qualcosa è meglio -come si diceva almeno fino a poco tempo fa- farselo mettere per iscritto... adesso, forse, bisognerebbe aggiungere: su file, CD o DVD.

Da circa 15 anni ho la fortuna di lavorare presso l’Archivio storico del Comune di Firenze, in un palazzo settecentesco che già di per sè meriterebbe lo sforzo di alzarsi presto al mattino per raggiungere la propria scrivania. Scrivania sulla quale, dal 1997 ad oggi, hanno lasciato traccia della loro polvere centinaia di documenti, databili fra il 1782 ed il 1968, appartenenti ai vari fondi custoditi nella penombra dei depositi ai piani superiori.

Chi ha detto che il lavoro d’archivio è noioso, monotono, ripetitivo, inutile? Niente di più falso. Quel che segue è la perfetta smentita ad affermazioni tanto gratuite quanto inesatte.

Oceano Atlantico, al largo di Terranova, 14 aprile 1912: il transatlantico Titanic, pomposamente definito unsinkable (inaffondabile), entra in collisione con un gigantesco iceberg che ne squarcia profondamente la fiancata. All’inizio, il comandante non realizza chiaramente la portata dell’incidente (caso, questo, destinato a ripetersi in epoca molto più recente), ma presto risulta evidente, oltre all’imminenza dell’affondamento, anche l’assoluta inadeguatezza del numero di scialuppe disponibili in proporzione ai passeggeri. Panico, ordini contraddittori, eroismo e vigliaccheria si mescolano convulsamente nello spazio di poche ore: fino a quando, all’alba del 15 aprile 1912, il Titanic si spezza in due tronconi e s’inabissa, trascinando con sè il tragico carico di più di mille vite umane.

Film, libri, romanzi ed oggi anche numerosi siti internet hanno scandagliato a fondo -insieme al relitto- la vicenda, la dinamica degli eventi, la storia della nave e dei suoi passeggeri. Tra questi, ci dicono le liste originali, erano presenti una quarantina di italiani, per lo più imbarcati tra l’equipaggio di bordo: giovani emigranti ventenni, pochi spiccioli in tasca e in cuore tanta speranza per un futuro migliore da costruire al di là dell’oceano, nel Nuovo Mondo.

Pochissimi, tra i nostri connazionali, viaggiavano con la qualifica di passeggero: e proprio uno di questi è riemerso dalle onde del passato sul mio tavolo, attraverso le pagine ingiallite di un fascicolo della serie Affari sfogati dal sindaco datato 1913. Tra aprile e maggio di quell’anno si dipana la corrispondenza fra il Ministero della Marina mercantile, il Consolato italiano a Londra e il primo cittadino di Firenze, marchese Filippo Corsini, al quale si richiedono gli esatti dati anagrafici di un italiano perito nel più celebre naufragio della storia. Il nome è Mangiavacchi Emilio (anche se in quasi tutte le liste passeggeri risulta inspiegabilmente registrato come Serafino Emilio), figlio –pare- di Pasquale, nato –forse- a Firenze, di cui necessitano le esatte generalità e l’ultimo domicilio della famiglia, probabilmente residente nel capoluogo toscano: ci sono obblighi da espletare, comunicazioni da inviare, pratiche da sfogare, insomma, per chiudere definitivamente quello che in termini archivistici è l’affare lettera A, n. reg. 1261, anno 1913.

E’ appena trascorsa la Festa dell’Assunta quando Emilio Giovanni Andrea Mangiavacchi nasce a Bibbiena, il 16 agosto 1864: viene battezzato il giorno stesso nella chiesa di S. Ippolito, ancora addobbata per la recente solennità, sotto lo sguardo fiero del padre Federico, di stanza in città nella sua qualità di pretore. La famiglia, benestante se non agiata, garantisce al giovane un’accurata educazione tradizionale, pianificando forse per lui una carriera in linea con quella paterna. Ma in Emilio il richiamo dell’avventura, fuori dai confini della terra d’origine, si fa presto prepotente. Forse per predisposizione naturale, forse per contatti con amici o parenti già in loco, la sua scelta cade sul Sudamerica: nel 1890 lo troviamo in Cile, intento a compilare con entusiasmo la richiesta di ammissione alla Cuarta Compañía de Bomberos (pompieri) di Concepción: “desiderando far parte come volontario di questa compagnia e ritenendo di avere i requisiti necessari, chiedo che questa mia domanda sia presentata al consiglio di disciplina”. Il lavoro ottenuto nel frattempo presso le Ferrovie dello Stato cilene deve certo lasciargli spazio sufficiente ad onorare un impegno di notevole peso sociale, da lui svolto fino al 1902, data della sua ultima firma nel registro di presenza dei vigili del fuoco. Contemporaneamente si perfeziona nella lingua locale, lo spagnolo, e coltiva l’interesse per argomenti di carattere scientifico: un binomio che si rivelerà utile quando tradurrà per il quotidiano El Sur il testo della conferenza La telegrafia senza fili , tenuta a Roma da Gugliemo Marconi in occasione della sessione solenne dell’Associazione elettrotecnica italiana del 7 maggio 1903. L’esperienza cilena di Emilio, a questo punto, è giunta al termine, ma del paese andino egli conserverà per sempre indelebili ricordi, oltre ad un suggestivo album fotografico (Vistas in Chile) che più tardi finirà addirittura in possesso degli Archivi Alinari.

Alla fine del 1903 una sorta di appuntamento col destino riporta temporaneamente il nostro eroe in patria, a Firenze. Proprio qui, nell’autunno dello stesso anno, da Sovicille è arrivata Nella, ventiquattro anni pieni di vita, capelli neri raccolti in morbida crocchia e occhi di fuoco. Uno scambio di sguardi, una parola, e tra loro è subito passione travolgente: contro tutte le convenzioni, contro tutti i tabù dell’epoca, il 20 settembre 1904 Nella si reca di persona al cospetto dell’ufficiale di Stato civile per denunciare orgogliosamente di aver partorito un figlio, nato dalla sua unione naturale con un uomo libero non parente nè affine con lei nei gradi che ostano al riconoscimento”. Emilio, ovviamente. Il quale poco dopo la sposa, per poi ripartire con lei ed il bambino verso l’America – stavolta quella del Nord. A New York le possibilità d’impiego per un quarantenne colto, intelligente ed esperto come lui non mancano. Presto trova un buon posto in banca, che gli frutta il rispettabile stipendio di 100 dollari al mese (circa 1500 euro odierni), mentre la famiglia cresce in parallelo al consolidarsi della sua posizione sociale: tra il 1907 ed il 1909 l’infaticabile Nella gli regala altri due maschietti, e sul finire del 1911 la vediamo -di nuovo incinta- augurarsi che stavolta si tratti di una femmina, cui trasmettere tutta l’energia positiva e la gioia di vivere del suo essere donna.

L’anno 1912 si apre così sotto i migliori auspici, nella dignitosa abitazione newyorkese dei due immigrati toscani. Tuttavia l’agenda prestabilita dalla sorte prevede per Emilio nuovi, improrogabili impegni. La recrudescenza di una malattia che lo affligge da tempo lo persuade a imbarcarsi di nuovo per l’Europa, per Firenze, dove sa di chirurghi specialisti in interventi del genere. Ma un altro tipo di operazione lo richiama imperiosamente nel capoluogo: la necessità di regolarizzare una volta per sempre la condizione anagrafica del primogenito, mai ben definita, dandogli finalmente il proprio cognome. Per la scelta dello studio notarile presso cui redigere l’atto ufficiale si affida alle conoscenze dell’amico Mario Foresi, noto letterato elbano, cui ha appena regalato una copia con dedica della sua traduzione della conferenza di Marconi. Foresi lo indirizza dal notaio Carlo Querci, di cui frequenta abitualmente la famiglia: così, nella giornata del 29 marzo, il documento è preparato, firmato, autenticato.

L’aria è frizzante, in quella primavera fiorentina del 1912. E allegro è l’umore di Emilio quando, in paglietta e redingote, si reca all’ufficio postale per spedire a casa, al di là dell’oceano, un telegramma che suona più o meno così : “Sbrigata pratica parto per Parigi. Fissato imbarco Cherbourg 10 aprile: TITANIC!


Il breve soggiorno nella capitale francese gli permette qualche svago: forse la visita al Louvre, forse la salita sulla Tour Eiffel, moderno simbolo della tecnologia, del progresso, di nuovi orizzonti ancora da scoprire...

Mancano solo pochi giorni all’incontro col Titanic, che al largo della rada di Cherbourg disegna maestoso nel cielo la sagoma dei suoi quattro fumaioli. Emilio ha solcato il mare più volte, su navi certamente importanti, ma un transatlantico di quella stazza è un’emozione anche per lui. Tanto più che a bordo –come ha letto nelle cronache entusiastiche dei quotidiani locali- si trova addirittura un ufficio postale, da cui i passeggeri in navigazione potranno spedire messaggi ad amici e parenti grazie al nuovo telegrafo senza fili, frutto del genio di Marconi: per Emilio un’occasione imperdibile per appagare, una volta di più, le proprie curiosità scientifiche.

In viaggio, colazioni a base di bacon e sciroppo d’acero e cene innaffiate da Moet & Chandon 1898 si susseguono in un clima piacevole e sereno, mentre il sottofondo musicale dell’orchestra rende l’atmosfera più calda, malgrado la presenza di imponenti blocchi di ghiaccio, in silenzioso rapido inesorabile avvicinamento...

Le ultime ore di Emilio Mangiavacchi sul Titanic appartengono non solo alla Storia con la S maiuscola, ma anche e soprattutto alla storia personale di lui, uomo coraggioso (“Sono stato pompiere volontario: posso essere d’aiuto?”), fiducioso nel potere della tecnica (“Gentile signora, non si dia pena! So per certo che dal modernissimo telegrafo di bordo si è già chiesto soccorso: tutto andrà per il meglio!”), ottimista fino all’ultimo, positivo fino all’estremo. Fino in fondo.

L’ansia, nella casa di New York, cresce col passare delle ore, nella giornata del 15 aprile 1912. Nessuna traccia della nave attesa in porto. E le prime, frammentarie, terribili notizie di un disastro destinato ad assumere proporzioni inimmaginabili.

Quasi tre mesi più tardi, Nella dà alla luce l’ultima creatura, il cui nome –in ogni caso- è scontato. Nasce così Maria Emilia, che non conoscerà suo padre di persona, ma riuscirà a figurarselo grazie ai racconti della madre e dei fratelli: insieme ai quali, nell’autunno di quello stesso anno, torna infine alla terra d’origine della famiglia, che infatti nel 1913 risulta avere residenza –come ossequiosamente recita la risposta del sindaco Corsini al Ministero della Marina- in Firenze, via Donizzetti n. 2.

La vedova Mangiavacchi, la forte e indomita Nella da Sovicille, si ricongiunge al compagno della propria vita esattamente 48 anni dopo la sua scomparsa, il 14 aprile 1960, soffocata da un edema polmonare come lui dalle acque dell’Atlantico.

Il racconto che qui si conclude, basato su documenti storicamente attendibili e solo in parte leggermente romanzato dalla partecipazione emotiva di chi scrive, è dedicato con affettuosa stima ai due protagonisti della vicenda, entrambi emblematici per carattere e personalità: Emilio -impetuoso, generoso, eclettico, brillante- e Nella –indipendente, appassionata, consapevole, ferrea.

Paradigma perfetto, ieri come oggi, di una coppia degna di questo nome.


(Pubblicato in versione ridotta su La Nazione del 15/4/2012, p. 14 Cronaca di Firenze: Emilio Mangiavacchi, un fiorentino sul Titanic, di Roberta Barbis)


mercoledì 16 marzo 2011

Saludos y besos

Roby


"...saludos y besos..."

Era così che spesso -con affettuosa, spagnoleggiante ironia- terminavi le tue e-mail, o i commenti ai miei post.

Era questo l'amichevole sigillo finale delle tue puntuali osservazioni, dei tuoi spunti di riflessione, delle tue sottolineature mai meno che acute.

E sono proprio queste tre parole, di te, a mancarmi di più.

Oggi, come un anno fa.


Saludos y besos anche a te, Primo.

Tua Roby



domenica 6 marzo 2011

Ogni promessa è debito

di Ottavio


Per il libro di Primo-Solimano siamo finalmente giunti alla meta. Il percorso iniziato lo scorso anno con la decisione dell’associazione Novaluna, di cui Primo faceva parte, di pubblicare in suo ricordo alcuni dei suoi scritti in rete, sta per concludersi con la stampa del libro di cui vedete l’immagine della bozza di copertina. Il libro andrà in stampa i primi giorni della prossima settimana e uscirà in tempo per il primo anniversario della sua scomparsa. Sinceramente ci sembra sia venuto molto bene, anche grazie al lavoro di due bravissime grafiche che collaborano con l’associazione in occasione come questa.
Abbiamo scelto le Novellette degli odori perché rappresentano un’autobiografia (involontaria?): a parte l’ordine cronologico vi si delinea la vita di Primo; e La grande Bua, cronaca di una depressione, narrata con leggerezza ed ironia, secondo il suo inconfondibile stile.
Il libro, di centoventi pagine, stampato in bianco e nero per esigenze economiche, avrà un costo di 10 € a copia.
Nei prossimi giorni riprenderò contatto via email con gli autori e frequentatori del blog Stanze all’aria che hanno manifestato l’intenzione di acquistare delle copie del libro per definire le modalità della “fornitura”. Chi non avesse ancora prenotato copie del libro ed intendesse farlo ora può scrivere all’indirizzo email dell’associazione info.novalunamonza@gmail.com.

sabato 26 febbraio 2011

L'abisso di statue di Jason de Caires Taylor

annalisa6604

E' tanto tempo, quasi un anno, che non scrivevo più su questo blog.....Senza le simpatiche e amichevoli "insistenze" di Solimano non ci sono più riuscita. Dopo cena, mi ritrovavo spesso con "First", a chiacchierare su Skype sulla nostra giornata, sui suoi progetti di articoli per Stanzeallaria o per Abbracciepopcorn o su quelli che gli promettevo di mettere e che non riuscivo mai per mancanza di tempo......
Oggi però un amico mi ha inviato questo link (http://www.underwatersculpture.com/) pregandomi di andare a vederne la "meraviglia", e ho pensato di condividerla anche con gli amici di Stanzeallaria.


Aprendolo ho scoperto un mondo completamente immerso in fondo al mare e che non conoscevo......"l'abisso di statue" per dirla come il titolo di un film giapponese degli anni'70 di Noboru Tanaka, Abesada - L'abisso dei sensi. Questo mondo sommerso, formato dalle statue "affondate" dello scultore Jason de Caires Taylor, crea davvero visioni eteree ed etremamente suggestive che si fondono con lo stesso "spettacolo" del mare.


E non bisogna sottovalutare anche il fatto che queste statue, costruite in calcestruzzo, favoriscono soprattutto l’insediamento dei coralli e degli organismi marini, espressamente previsti come "coautori" delle opere, trasformandole piano piano in popolati “condomini viventi”, così come accade con tutti gli innumerevoli relitti nelle vaste profondità marine.


Come si legge nel sito, si chiama infatti “The Silent Evolution” (Evoluzione silenziosa) il “museo” sommerso delle statue di figure umane a grandezza naturale e dei vari oggetti che Jason de Caires Taylor ha realizzato appositamente e che trovano posto in fondo al mare del Messico, precisamente nella penisola dello Yucatan, emblema della famosa “Costa Maya”. Nel Parco Marino Nazionale di Cancun, Isla Mujeres and Nisuc, si è infatti da poco completata la prima trance di figure, ispirate sia al mondo contemporaneo che a quello della cultura Maya di cui pesci, molluschi e invertebrati si approprieranno lentamente aggiungendo a loro volta altri suggestivi effetti scultorei.


Non ho resistito e ho "rubato" queste meravigliose immagini che danno un'idea della bellezza di questa testimonianza scultorea della vita di tutti i giorni in fondo al mare: un uomo seduto alla sua scrivania o intento a battere una lettera su una vecchia macchina da scrivere, o bambini che si tengono per mano in un girotondo o un ciclista, impegnato in una corsa sulla sua bicicletta. Una bambina che stringe la sua borsetta o un vecchio pensieroso e forse triste. Dei frutti o un orologio o addirittura un cubo di Rubik lasciati su un tavolino. Insomma davvero "tutti" in fondo al mare!







Queste sono le opere di Jason de Caires Taylor, che ha creato il museo più grande del mondo nei fondali del mare messicano, queste le sue "meraviglie" che potrebbero anche servire allo sviluppo dei coralli della barriera corallina, aiutandone o almeno non disturbandone lo sviluppo.

sabato 22 gennaio 2011

Felicità

Roby



Vola, passerotto!

Corri, salta, scopri, impara... vai incontro al mondo ad occhi spalancati, sorriso birichino, ali spiegate... vai sicuro, con tutta la forza accumulata nei tuoi primi, durissimi due anni di vita su questa terra...

E poi, con calma, torna a dormire tranquillo nel tuo nido di città, sognando forse la foresta di manghi in cui sei nato, il ticchettìo della pioggia sul tetto di legno, il sapore dolce delle piccole banane tropicali...

Ben arrivato, nipotino, minuscolo signore e padrone della tua vecchia zia!


lunedì 27 dicembre 2010

Babbo Natale esiste

Roby





Mi sono trattenuta finora.

Capirete, quei dispettosi degli elfi mi avevano imposto il silenzio, pena l'annullamento immediato del regalo richiesto con regolare letterina, firmata, timbrata e impostata ben due anni fa. Le renne, poi, lungi dall'essere quelle pacioccone che sembrano, avevano addirittura minacciato d'incornarmi, se ne avessi parlato prima...

Oggi però, a fatto avvenuto, sono autorizzata a darvi la grande notizia:

Babbo Natale esiste davvero, ve lo dò per certo!!!

Anche se -per esaudire il desiderio espresso- ha impiegato un bel po'. E malgrado abbia consegnato il dono tanto sospirato con un giorno di ritardo sulla data tradizionale. Forse colpa del jet lag? Chissà... Del resto, l'articolo in oggetto non era reperibile presso i normali centri di distribuzione, nè tanto meno fabbricabile nel suo stabilimento, laggiù in Lapponia.

Ma tutto questo, ormai, poco importa.

Quello che conta è che da ieri mia sorella e mio cognato, genitori adottivi volati in Cambogia alla vigilia di Natale, possono finalmente stringere tra le braccia il loro piccolo, 26 mesi di pianti, sorrisi e occhioni sgranati.

Benvenuto, nipotino: la zia Roby ti abbraccia a 20.000 km di distanza, nell'attesa di poterti al più presto spupazzare come si deve!!!!




Tipica culla-amaca cambogiana


(Fonte immagini: stellina081.spaces.live.com , travelpod.com)

venerdì 24 dicembre 2010

La fabbrica dei ricordi

Roby




Fabbricare un ricordo non è cosa da nulla. Basta sbagliare di un niente le dosi, ed ecco che la superficie si sfalda, lo smalto perde brillantezza, il colore di fondo impallidisce...

Eppure, sembra facile: si fa ordine in soffitta, si sfoglia un vecchio album di foto, ci si concentra un attimo, e subito -che ci vuole? - antiche immagini si riformano, voci silenziose tornano sonore, sguardi appannati si spalancano di nuovo alla luce.

Già. Ma è solo un istante. Mentre stai per afferrare la diapositiva colorata del tuo passato, quella si affloscia, si accartoccia, svanisce nei ripostigli bui della memoria, lasciandoti una fitta come di spilla da balia mal chiusa...

E allora, lo vedi? Bisogna stare più attenti, metterci un po' più di attenzione, di cura. Di cuore.
Lascia perdere straccio e spazzolone, spegni l'aspirapolvere, siediti in terra a gambe incrociate, chiudi gli occhi e aspetta. Abbi pazienza, non ci vorrà molto: in fin dei conti, se rimandi le grandi pulizie di mezz'ora non cascherà il mondo! Eccoli, eccoli! Li senti? Arrivano in punta di piedi, trattenendo le risate, i sospiri, i brontolii. Ti frusciano intorno, ti sfiorano appena, ti soffiano leggeri nelle orecchie, ma tu -per favore- ancora non muoverti. Lasciali appollaiare sui loro posatoi, attendi che siano tutti lì tranquilli, in bell'ordine. Allora - e solo allora- comincia con attenzione il lavoro: dài loro una mano di tinta pastello, una spruzzata di brillantini, un taglio sapiente di forbici seghettate. Poi, se vuoi, incolla lì la margherita seccata tra le pagine di quel vocabolario di latino, appiccica là il nastrino colorato che chiudeva quel pacchetto prezioso, incolla quassù la stella dorata della tua prima letterina a Gesù Bambino...

Ecco fatto.

Visto? Questi sì che sono ricordi fabbricati a regola d'arte!

L'arte segreta, quasi sconosciuta, di risvegliare pian piano dal sonno le emozioni.


lunedì 20 dicembre 2010

Auguri

Gauss

Monza, il Re de sass.

Cari amici di Stanze all’aria, vi mando questa foto come biglietto d’auguri. L’ho scattata un paio di settimane fa, mentre tornavo dalla passeggiatina serale con il cane. Su Monza c’era nebbia e dalle sue microscopiche goccioline la luce dei lampioni ha ricavato un involontario e inaspettato effetto “palle d’albero di Natale”. Siamo in una ampia e bella piazza monzese, intitolata all’eroe della Resistenza monzese Gianni Citterio. Abbracciata da ville ottocentesche, si trova proprio a metà del breve percorso fra il centro della città (le cui luci brillano sullo sfondo) e la Villa Reale (alle spalle del fotografo). In mezzo alla piazza la statua di Vittorio Emanuele II, nota a Monza come il Re de sass.

Buon Natale e Buon Anno.

Gauss

sabato 13 novembre 2010

Timballo di rime avanzate

Roby




Sei mesi passati in un lampo.
Riapro dubbiosa la porta
ed ecco che là in pieno campo
mi appare una rima un po' storta.
Accanto, meschino ed incolto,
occhieggia disfatto e scomposto
un endecasillabo sciolto
dal caldo infernale d'agosto.
Più avanti -spettacolo triste-
due vecchie poesiole (che dire?)
pensate limate riviste
e infine lasciate ammuffire.

Pensosa soffermo lo sguardo
su tanto sfacelo scaduto:
ma quale destino bastardo
giustifica quanto accaduto?
Dovevo prestare attenzione,
badare alle esatte scadenze,
non fare una tal confusione
sommando a decine le assenze.
E adesso in che modo rimedio?
Intanto dò aria alle stanze
e dopo, per vincere il tedio,
impasto sapori e fragranze.

Amalgamo sillabe e iati,
miscelo con cura gli avverbi:
persino coi post avanzati
si ottengono brani superbi!
Se azzecchi la giusta cottura
e regoli bene di sale
ci scappa una buona lettura,
due righe così, niente male.
Due righe per fare merenda,
tre versi per rompidigiuno:
non certo una prosa stupenda
o liriche numero uno!

Avanti con pentole e fuoco,
il lievito monta nel forno:
dov'è il mio cappello da cuoco?
L'avevo lasciato qui intorno...
Aggiungo puntini sospesi,
metafore ed anacoluti,
ricordi appena rappresi,
sarcasmi già quasi scaduti:
e spolvero infine su tutto
lo zenzero dei miei pensieri
con ciò che di bello o di brutto
ho visto sia oggi che ieri.

Servito su stampo argentato
timballo di rime, voilà!

(Nel caso, di bicarbonato,
ne ho buona scorta di là)



domenica 6 giugno 2010

Rosso speranza

Roby

Leonardo Castellani - Ragazza dai capelli rossi - 1945


In un angolo della casa, dietro la porta della camera da letto, tengo il contenitore per la raccolta differenziata della carta. Quando la porta fatica ad aprirsi completamente, è segno che la quantità accumulata è più che sufficiente, e che è arrivata l'ora di trasferirla all'apposito cassonetto, giù in strada. Talvolta, però, qualche busta vuota, qualche appunto scarabocchiato in fretta, qualche ritaglio di giornale sfuggono al mucchio, reclamando ancora per un po' la mia attenzione. E' quanto è successo nel caso del brano che riproduco qua sotto, pubblicato varie settimane fa fra le Lettere al direttore del quotidiano cittadino:

"Caro Direttore, tramite La Nazione vorrei ritrovare un'amica conosciuta 65 anni fa in riva all'Arno nella pista da ballo Il Lido. Suo padre era un fontaniere, lei una bella ragazza dai capelli rossi, impiegata in via della Vigna Nuova presso la ditta Paoli che fabbricava articoli in paglia. Con la ragazza dai capelli rossi facemmo una passeggiata nel viale dei Colli. Le sarei grato se potesse pubblicare la mia lettera per aiutarmi a ritrovare la ragazza di allora. - L.P. - Ponte a Ema (FI)"


Henri de Toulouse-Lautrec - Giovane donna dai capelli rossi - 1887-89


Sessantacinque anni fa. Millenovecentoquarantacinque. La guerra appena finita, la voglia di ricominciare a vivere, il sangue che pulsa nelle vene, l'estate che esplode. E il rosso di quei capelli, una fiamma piena di promesse...

In via della Vigna Nuova il bel negozio di articoli in paglia ha lasciato il posto, da almeno vent'anni, ad una griffatissima, pretenziosa, anonima boutique. Di piste da ballo sull'Arno, ormai, nemmeno l'ombra. Solo il viale dei Colli resiste, pur soffocato dal traffico di auto, moto, mostruosi pullman scoperti che al prezzo di 20 euro scarrozzano i turisti a vedere tutta Firenze...

Al signor L.P. non è passato neanche per la mente che quella ragazza potrebbe non esistere più. E che, in ogni caso, non sarebbe più la ragazza di allora.

Sorrido tra me, rileggendo la lettera: poi la ritaglio con cura e la ripongo nel portafoglio, in una tasca segreta. Che riaprirò solo quando, in futuro, sentirò il bisogno di appoggiarmi ancora a qualcosa per sperare di nuovo nel domani.


Amedeo Modigliani - Ragazza dai capelli rossi in abito da sera - 1918

mercoledì 2 giugno 2010

Jack the Ripper cammina con noi

Roby


Primi di giugno, l'odore delle vacanze è già nell'aria.

Quest'anno si ritorna in Francia. Dieci giorni tra Provenza e Costa Azzurra, da fine luglio a metà agosto.

Comincio, come da copione, a sfogliare riviste di viaggi, a gironzolare sui siti internet dedicati, a sognare campi di lavanda e promenade sulla Croisette... finchè una frase, nell'appendice della guida prestatami da un'amica, mi colpisce di brutto.

La Provenza non presenta particolari pericoli per la sicurezza personale.
Valgono le norme di prudenza consuete in qualsiasi paese.
Ovviamente, le donne sole eviteranno di frequentare zone deserte di notte.

Ecco, appunto. Le donne sole.

Perchè se invece sono in tre o quattro, le signore o signorine, possono benissimo avventurarsi persino negli angiporti di Marsiglia, magari facendo un salto nel covo di qualche noto spacciatore di coca boliviana, così, tanto per salutarlo.

Oppure, se la viaggiatrice è stata tanto previdente da accompagnarsi ad un essere umano di sesso maschile, fosse pure un modello ipodotato tipo Brunetta, allora può stare tranquilla, è in una botte di ferro: nessun malintenzionato emulo di Jack lo squartatore oserà neppure avvicinarsi.

Ovviamente, in ogni caso, i maschietti -soli o in gruppo- sono liberi di scorrazzare a qualsivoglia ora del giorno e della notte in qualsiasi quartiere cittadino, financo il più malfamato. Mentre invece, ovviamente, appena una femminuccia osa imboccare una strada vuota, al calar delle tenebre, il messaggio vola nell'etere, si trasmette per onde radio, rimbalza sui cellulari della peggior feccia locale: "Correte, correte subito tutti in via Pinco Pallino, c'è una donna sola che passa di là apposta per farsi aggredire, rapinare, violentare e volendo anche accoltellare. Ma sbrigatevi, per carità, prima che le venga in mente di chiamare un taxi, o prendere un autobus!"

Ovviamente... è proprio questo avverbio, stampato lì nero su bianco, a farmi leggermente incazzare. Cosa c'è di tanto ovvio, cari compilatori della guida turistica? E' ovvio -ad esempio- che se metto la mano sul fornello acceso me la brucio; ed è addirittura lapalissiano che se esco senza ombrello sotto il temporale mi infradicio fino al midollo. Ma perchè, ripeto perchè l'eventualità di violenze su una creatura umana e femmina dovrebbe essere un fatto così maledettamente OVVIO???

Poi, però, rileggendo il brano incriminato capisco all'improvviso che mi sono sbagliata, e che le mie paure sono infondate: perbacco, se le zone in cui intendo transitare sono deserte, vuol dire che di lì non passa nessuno. Ergo, chi dovrei temere? La mia ombra?

Dear Jack, I'm sorry: per stavolta ti è andata buca!





domenica 23 maggio 2010

La vita è una ruota

Roby

Mio padre adorava il ciclismo.
Intendiamoci, non lo praticava (mai praticato nessuno sport, che io sappia), ma poteva restare per ore a seguirlo in tv, sciroppandosi anche tutta l'infinita appendice di premiazione del vincitore, processi alla tappa, interviste e controinterviste varie.

Persino nella fase finale della sua lunga esistenza, quando ormai le facoltà cerebrali lo avevano quasi del tutto abbandonato, se sul televisore comparivano le immagini del Giro d'Italia, del Tour de France o della Milano-Sanremo nei suoi occhi velati si accendeva qualcosa: una debole luce, un barlume di gioia, un guizzo di coscienza, che lo portava a indicare lo schermo, ad accennare un sorriso, a sforzarsi di articolare poche parole sempre uguali:

"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."


Seduta accanto a lui sul vecchio divano del salotto, rispondevo con preoccupata dolcezza a quei suoni, a quei gesti, augurandomi che il collegamento col Giro o col Tour durasse il più possibile, per garantirgli ancora un po' di serenità, strappandolo all'ansia all'agitazione all'aggressività della demenza senile nei suoi momenti più bui...




E contemporaneamente mi chiedevo che gusto ci fosse a guardare un gruppo di ragazzi in bicicletta sfrecciare in massa su stradoni di campagna, inerpicarsi su pendenze del 49%, rompersi l'osso del collo in scivolose volate sul bagnato: specie se neanche si riusciva a distinguerli, tutti uguali com'erano, con gli stessi caschetti di protezione, gli stessi occhialini neri, gli stessi costumini rosa fuxia o giallo canarino. Lo spettacolo mi innervosiva o -nella migliore delle ipotesi- mi annoiava, e basta.

Ma la storia è fatta di corsi e ricorsi. E la vita, si sa, è una ruota. La bici, poi, di ruote ne ha due, belle tonde. Così (lo confesso qui apertamente per la prima volta) se ora facendo zapping col telecomando càpito sulla telecronaca della tappa odierna non solo non cambio canale ma mi fermo, mi accomodo meglio in poltrona e guardo. Osservo rapita, affascinata, conquistata da quei raggi lucenti che girano vorticosi, dalla costanza di quei muscoli che premono sui pedali, da quel serpentone a tinte fluo da cui -ogni tanto- si staccano fulminei due tre quattro coraggiosi isolati. Indugio sulle facce della gente assiepata ai lati della strada, quasi sempre allegra, rubiconda, festante. Partecipo col fiato sospeso all'incurvarsi incredibile del mezzo, al suo sgusciare tra gli altri senza danno, alla lenta fatica dell'ascesa e alla velocità inebriante dell'improvvisa discesa.

Mentre dentro di me -o forse accanto?- una voce mai dimenticata ripete, malferma ma felice, la ben nota, rassicurante cantilena:

"Guarda che curva... Madonna che salita... Accidenti che volata..."





venerdì 21 maggio 2010

La cultura secondo Batman

Roby



Probabilmente succederà anche a voi: sfogliando un libro, guardando un film, bevendo un caffè, prendendo l'autobus... all'improvviso una frase vi attraversa il cervello costringendovi a fermarvi, a concentrarvi, a tentare di rammentarvi dove l'avete già sentita, dove l'avete letta, chi l'ha pronunciata.

La cultura è un bene che nessun malfattore potrà mai rubarti

Platone? Seneca? La Rochefoucauld? Manzoni? Oscar Wilde?

Non esattamente.

Sono parole che Bruce Wayne alias Batman rivolge al suo pupillo e compagno di avventure Dick Grayson alias Robin, in una striscia a fumetti capitatami sotto gli occhi -a dir poco- 40 anni fa. Lo studiosissimo wonderboy si scusa di non poter accompagnare il collega in missione, avendo da preparare un esame, al che il tenebroso pipistrello ne loda la diligenza, pronunciando la sentenza suddetta.

Non vi so spiegare perchè mi sia tornato in mente proprio oggi, proprio adesso, proprio qui. E' stato un flash, e via. Ma resta il fatto che il concetto di cultura come bene di rifugio permea ormai da tempo la mia caduca esistenza terrena, a dispetto del -o forse grazie al?- sangue sputato su vocabolari di greco, tomi di storia romana, tavole di paleografia e dispense di filologia classica. E in tutto questo il vecchio Batman (insieme al suo ghostwriter) ha avuto sicuramente la sua parte di responsabilità.

Appena mi capita di vederlo svolazzare da queste parti, devo proprio ricordarmi di ringraziarlo.







mercoledì 19 maggio 2010

L'originale e la sua copia

Gauss

Dopo la visita alla mostra di Roy Lichtenstein mi sono ritrovato a rimuginare, un po’ anche menando il can per l’aia, sul rapporto fra la copia e il suo originale. Cerco di mettere ordine.



In quello che viene considerato il suo manifesto surrealistico, Ceci n'est pas une pipe, Magritte raffigura con plastica veridicità e perfezione di dettaglio una pipa, però ci avverte, guardate che questa non è una pipa, è un’icona, un simulacro di pipa, non si può riempire di tabacco e tirar qualche boccata. Lo ha chiarito Magritte stesso: "Se avessi scritto sotto il mio quadro: «Questa è una pipa», avrei mentito". La sua copia di una pipa è l’espressione visibile di un concetto, non appartiene alla realtà tangibile, appartiene al mondo delle idee, insomma, puro logos. Una considerazione che vale per l’opera di Magritte come per qualunque altra opera d’arte, che anche la più iperrealista sempre astratta è.

Con la sua serie di Cadeau il dadaista Man Ray si spinge ulteriormente su questa linea di pensiero. Nemmeno propone una copia dell’oggetto che vuole rappresentare, lo espone così com’è, nella sua corporea concretezza. Estraniandolo però dall’ambito che gli è proprio e in tal modo privandolo della sua originale e funzionale natura, trasforma il suo ferro da stiro in un soggetto immateriale, di cui valgono solo le proprietà formali. Pur senza ricorrere alle parole di una didascalia anche Man Ray, come Magritte, esplicita il suo intendimento con una illuminante contraddizione. La fila di chiodi conficcati nella superficie piana del ferro da stiro è lì ammonirci: “Non azzardatevi a considerarmi un utensile domestico, sono una scultura, se non ci credete provate a usarmi come ferro da stiro, vedrete se stiro o se sbrego”. C’è del sadismo in questo alludere e deludere, affermare e negare.


Il concettuale Joseph Kosuth rende ancora più esplicita la relazione fra l’oggetto e la sua rappresentazione con la sua famosa opera One and three chairs, la sedia una e trina, una installazione nella quale accosta a una sedia una sua fotografia e l’ingrandimento della pagina di un dizionario che ne dà la definizione linguistica. Sono la stessa sostanza in tre diverse manifestazioni, la fisica sensibile, l’estetica visiva e la logica verbale, nessuna è l’originale e nessuna è la copia, un artista potrebbe indifferentemente ispirarsi a qualsivoglia delle tre, prendere spunto dalla sedia del bar su cui è solito prendere l’aperitivo, dall’immagine di una sedia sul catalogo che l’IKEA manda trimestralmente a sua moglie e anche, perché no, dalla descrizione della sedia che in un romanzo giallo sorprendentemente diventa la chiave per scoprire il colpevole. Le parole possono addirittura ispirare più delle immagini, quanti capolavori hanno tratto origine dal Genesi o dalla Divina Commedia?













Venendo a Lichtenstein, le sue fonti di ispirazione sono copie di copie, le riproduzioni delle opere di grandi autori sulle pubblicazioni d’arte di cui è attento studioso. La matrice letteraria del suo lavoro è palese, nei soggetti e nello stile. Prendiamo The red horseman. Stessa composizione, stessa moltiplicazione delle figure, stessa tavolozza cromatica del Cavaliere rosso di Carlo Carrà. Ma mentre la cavalcata sfrenata del futurista Carrà esalta la forza vitale dell’azione e del movimento, l’elegante galoppo di Lichtenstein sembra voler non tanto celebrare il movimento quanto omaggiare il futurismo. Se si accetta che l’arte, anche quando vuole rappresentare la realtà fisica e naturale, è per sua natura un’astrazione, quella di Lichtenstein, che prende a protagoniste le astratte idee-guida della cultura del suo tempo, è un’astrazione al quadrato. Non c’è ancora un ismo cui far riferimento per qualificare l’originale inconfondibile stile pittorico di Lichtenstein, ma volendolo trovare, iperastrattismo mi parrebbe appropriato.

Gauss

P. S.
Si parva licet, tempo fa ho dipinto una canestra di frutta. Sì, simile – Dio mi perdoni – a quella di Caravaggio. E’ andata così, una vicenda complicata.
Una catena di supermercati, se ricordo bene la UNES, promuoveva i suoi prodotti alimentari con le foto di composizioni di frutta che imitavano le nature morte di grandi pittori del passato. Ho copiato da uno di quei depliant pubblicitari, quindi la mia natura morta è la copia di una foto che ritrae un’imitazione dell’immagine di un dipinto che raffigura una natura morta. Sei passaggi in tutto. La tengo appesa in casa e agli amici cui la mostro per la prima volta, appena la collegano a Caravaggio, sono solito dire che ho rifatto la Canestra di frutta per eliminarne i difetti!





domenica 16 maggio 2010

Una domenica con Spitzweg - 2 -

Roby


Il povero poeta

Nuvole. Vento. Temperatura in ribasso. Mettere il naso fuori di casa, oggi, è assolutamente escluso. In fondo, tra queste quattro mura non si sta poi malaccio... sempre meglio dell'angusta soffitta dove Carl Spitzweg colloca il povero poeta, protagonista della sua opera più nota. La stufa appare spenta, il letto non è che un pagliericcio, il mobilio sostituito da pile di libri squinternati: e quell'ombrello scalcagnato, precariamente appeso alle travi della mansarda, suggerisce il costante pericolo di sgradite infiltrazioni dal tetto sfondato. Eppure attraverso l'angusto finestrino riesce a penetrare un raggio di luce, magro conforto per il nostro squattrinato amico, tutto concentrato nello sforzo di creare e poi di trasferire sulla carta -con la penna tenuta stretta tra le labbra- i versi immortali che presto gli daranno la fama, togliendogli finalmente la fame.

L'amante dei cactus

No, casa mia assomiglia di più alla dimora piuttosto disordinata dell'inoffensivo ometto stempiato, innamorato perso delle puntute piantine di cactus che ornano il suo davanzale. La pendola segna le 10:40, ed il sole entra a fiotti dalla grande finestra a riquadri, ma il timido amante -probabilmente- non ha neppure fatto colazione, non pensa ancora al pranzo e non si preoccupa dei pacchi di fogli (conti? libri mastri? pratiche legali?) che assediano ogni angolo della stanza. Al suo lavoro (contabile? amministratore? avvocato?) penserà più tardi, forse domani: adesso, l'importante è accarezzare con lo sguardo le sue spinose creature, illeggiadrite da effimere fioriture. E poco importa che l'inchiostro lentamente si prosciughi, nel calamaio lasciato aperto sul tavolino.


Il topo di biblioteca

La luce scende dall'alto, impregnata di pulviscolo atmosferico, sulle spalle ingobbite dell'accanito lettore, mani gomiti e ginocchia ingombri di libri da sorreggere, scartabellare, soppesare pensosamente. Cosa dice la scritta incorniciata da stucchi dorati, in cima allo scaffale? Devo inforcare gli occhiali per decifrarla... Forse METAPHYSIS ? Ohibò, un argomento di tutto rispetto per il vecchio topo di biblioteca! Il quale, tuttavia, dovrà prestare un minimo di attenzione anche alla pochezza delle cose materiali -ad esempio, alla solidità dei gradini della scala- se vorrà concludere senza danni la sua visita alle amate carte.

Intanto, chiuso in un lontano seminterrato, Arlecchino medita tristemente sulle sue colpe di maschera carnevalesca, chinando il capo sotto la scacchiera luminosa che gli piove addosso: malinconico prigioniero dell'inesorabile finale di una festa inevitabile, della quale - in questo giorno di penitenza- non restano che le ceneri fumanti, da qualche parte sotto il sole, là fuori.


Mercoledì delle ceneri



sabato 15 maggio 2010

Casablanca

mazapegul






Non appena arrivati a Casablanca, scoprimmo che la conferenca marocco-franco-italiana di analisi armonica s'era scissa, per rivalità in seno alla comunità matematica locale, in due conferenze, che si serebbero tenute in luoghi diversi: una franco-marocchina e una italo-marocchina. Gli attentati contro obiettivi occidentali in città erano avvenuti da pochi mesi e i nostri ospiti erano terrorizzati all'idea che ci potesse capitare qualcosa di male: la mattina ci venivano a prendere in albergo e la sera vi ci riportavano dopo cena, ingiungendoci di non andare in giro senza la loro scorta. Solo a quell'ora, libero dai miei protettori, potevo andare in giro per la città, che tutto mi pareva tranne che pericolosa.
Forse perché aveva un'aria famigliare, da Milano mediterranea, con i grandi viali alberati, i palazzoni pieni di vita e la gente spinta a girare per strada da caldo estivo. Anni dopo provai la stessa sensazione passando dei giorni a Bari per lavoro: una Milano col mare, come diceva lo scherzo ambrosiano-barese d'un tempo. E così Casablanca, che in comune con Bari ha anche la cattedrale a ridosso del mare, la grande e nuovissima moschea Hassan II.






E in effetti, retrospettivamente, la somiglianza con Bari si rafforza, per la presenza, a Bari come a Casablanca, di una "medina" (città vecchia) di ragguardevoli dimensioni, a ridosso, ma indifferente alla città nuova e spaziosa. In entrambi a casi, infatti, la medina è tutta rivolta verso il mare, in direzione del quale percola in mille vicoluzzi storti.








Noi eravamo però alloggiati nel moderno centro cittadino, a due passi da un boulevard ampio e vitale, a qualche chilometro dal mare. La sera andavo a fare la mia passeggiata verso una piazza aiuolata, guardavo i bar dove si bevono alcolici, pudicamente nascosti alla vista da delle vetrate smerigliate, e tornavo verso l'albergo quando il muezzin (un altoparlante, in verità), chiamava alla preghiera serale nella piccola moschea del quartiere.
Mi sistemavo in un angolo di strada tra il mercato rionale e la mosche e osservavo i fedeli che arrivavano per la preghiera. Arrivavano a coppie o a gruppi: uomini barbuti con la jallabya, piccole compagnie di ragazze discretamente velate, tutti allegri e chiaccherosi. (Si trattava, con tutta evidenza, di una minuscola minoanza dei residenti del quartiere). Alcuni uomini arrivavano tenendosi per mano, come i cavalieri medioevali nei loro momenti di amicizia e svago. I ritardatari arrivavano con una una buffa corsetta, tenendo alzato con le mani il sottanone che ne impicciava il passo.







La mattina andavo al mercato, a due passi dall'albergo: una piazzatte quadrata recintata, con postazioni fisse coperte e banchi sistemati in mezzo alla piazza. I banchetti più miserabili, mi pareva, erano quello che vendevano la menta per il tè. Una merce veramente povera, pensavo io che da anni combattevo per estirpare la menta infestante dalla mia aiuola. Però, qui a Bordeaux, vado al mercato di piazza St. Michel il sabato e vedo gli stessi banchi, sempre di commercianti marocchini, che vendono la stessa menta con la stessa serietà e convinzione che gli avevo visto a Casablanca.






Il mercato, nel suo somigliare a quelli romagnoli o milanesi, aveva però qualcosa di fuori posto. Un aspetto meno fiammingo nella disposizione del pesce, forse. O maggiore "carnalità", rispetto ai nostri negozi, del banco delle carni; che mi pareva lì, contrariamente al pesce, un aspetto più vicino alla pittura occidentale; ai macellai dei Carracci e ai buoi squartati di Rembrandt.
In un angolo c'è un rivenditore di animali vivi: polli e conigli. "Chissà cosa se ne fanno le massaie marocchine di animali vivi, nei loro palazzoni," mi chiedo. Arriva una signora e indica un pollo. Il rivenditore lo prende, afferra un coltellaccio e, chop!, gli taglia la testa e lo ficca subito in un pentolone di acqua bollente. Il pollo, sommariamente spennato, finisce nella borsa della signora, che paga e ringrazia sorridendo.